Il
legame di Daniele Baldassarre con questa Terra, che nell’antichità si chiamava Latium, ha inizio il 3 dicembre del 1955
a Fiuggi, già Anticoli di Campagna, con radici paterne a Vico nel Lazio. Daniele
ricorda ancora donne alla fontana con le conche in rame, gli animali da soma,
la trebbiatura sull’aia e qualche vecchio con le cioce e gli indumenti tipici
della tradizione. Ha poi seguito l’intero corso degli studi a Roma, allievo tra
gli altri di Luigi Pellegrin e Guglielmo De Angelis D’Ossat, fino alla laurea
in architettura nel 1982. Durante gli anni universitari ha approfondito gli
aspetti della teoria e storia dell’arte, avvicinandosi al mondo della critica
sotto la guida esperta di Filiberto Menna. Dopo un lungo periodo quale
assistente di Ermanno Leschiutta (con il quale lavorò anche ad un volume
illustrato su testi di critica architettonica di Lorenzo Berni) e quindi
un’esperienza, breve ma certo ricca di fermenti, nello studio “Granma” al fianco
di Massimiliano Fuksas e Annamaria Sacconi; alla metà degli anni ’80 il ritorno
a Fiuggi. Qui ormai opera in prevalenza, seppur tuttora affascinato dagli
sviluppi nel panorama dell’architettura internazionale, in special modo quella
giapponese. Certo gli studi, le esperienze giovanili romane, gli incontri, i
viaggi, hanno portato ad impegnarsi in più campi, con medesima intensità: Dalla
progettazione con Fuksas, alla ricerca con Leschiutta; dagli allestimenti
espositivi, con l’iniziazione esperta di Maurizio Di Puolo nel 1983, alle
mostre di scultura per Ugo Attardi ed Angelo Canevari; dalla fotografia, con i
suggerimenti amichevoli di Franco Fontana, all’incisione con Angelo Gabbanini e
Gaetano Pompa. Oltre alle collaborazioni con Pedro Cano e Nicola Carrino,
lunghe amicizie con Marco Gizzi, Guglielmo Coluzzi, Sandro Scascitelli, Sergio
Toppi, Antonio Fiore, Patrick Alò, Giovanni Fontana, Piero Fantastichini e Jago.
Poi l’incontro con Vincenzo De Caprio e l’odepòrica (Studio della letteratura di viaggio), con Renato Mammucari, Pier
Andrea De Rosa, Marcello Carlino. Tutto ciò ha lasciato in Daniele Baldassarre
una passione multidisciplinare, che permea l’approccio all’architettura. Con tali interessi, nel
2002 aveva creato nel centro storico anticolano un punto d’incontro espositivo
ed archivio informatico dedicato al territorio: La Bottega della Memoria. Negli ultimi decenni dunque, pur venendo da
oltre un trentennio vissuto nell’Urbe
Caput Mundi, col suo complesso e stratificato, grandioso campionario
architettonico ed artistico è stato inversamente attratto dalla semplicità,
solo apparente, del “Piccolo mondo antico” delle sue radici. Oltre a quelle sue
“Mirabilia” storicamente celebrate
ormai da millenni – come le mura poligonali alle quali ha dedicato molti dei suoi
studi - lo affascinano tante opere forse misconosciute, manufatti che si
distinguono dal panorama edilizio circostante, nonostante dimensioni piuttosto
ridotte, per la loro evidente “singolarità”: nell’aspetto esteriore; nel
ricorso a lontane tradizioni costruttive; nelle desuete destinazioni d’uso,
ormai perse nel passato; nel valore unico, sacrale e/o identitàrio, che loro attribuisce ognuna delle comunità cittadine
che le hanno in secolare custodia. Piccoli gioielli incastonati in paesaggi non
di rado intatti, come le Mura ciclopiche di
Pyrae a Scauri di Minturno, la “Porta aurea” a Castellonorato di Formia,
Via delle Mura Ciclopiche sempre a
Formia e quelle di Gaeta, Itri, Ponza e Sperlonga o nel tessuto urbano
dei centri, avviati però talvolta a una non accettabile, incomprensibile
dimenticanza. In primis si presenta allora
nelle sue pubblicazioni una decisa volontà documentaria, per concorrere insieme
agli altri studiosi del Lazio meridionale a una continua divulgazione e tutela
della sua davvero peculiare realtà. Nondimeno, gli “appunti di viaggio” gli
hanno dato l’opportunità di riconsiderare la personale visione del “fare architettura”,
suggerendo come si dovrebbe agire sul territorio: Costruendo ove possibile il veramente
necessario alle esigenze contemporanee e cercando parallelamente di recuperare
l’originale patrimonio esistente; progettando peraltro in modo sostenibile, nei
materiali e nei volumi, in coerenza con la diversa natura di ogni sito.
Ritornando così a rispettare il mutevole “nume tutelare del luogo”, quel genius loci spesso ignorato nell’odierno
Latium.
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