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venerdì 1 giugno 2018

Preti carbonari nella diocesi di Gaeta (Ufficiali e sacerdoti – maestri inquisiti) di Aurelio Carlino.

Interno chiesa di san Nicandro in Tremensuoli
La carboneria era una società segreta con intenti liberali e patriottici, che si affermò in Italia durante il periodo della restaurazione. Secondo il generale piemontese Giuseppe Rossetti, che combatté nell'esercito francese e fu affiliato nella carboneria, si tratterebbe di un'associazione di mutuo soccorso tra militari di ranghi inferiori, risalente alla settecentesca “Charbonnerie” della Francia contea. E' noto che Giuseppe Bonaparte, gran maestro della massoneria francese, salito sul trono di Napoli, riordinò quella napoletana. La setta nascente nell'Italia meridionale all'epoca di Gioacchino Murat, per opera di un gruppo di massoni, la carboneria, trovò quindi nel regno condizioni particolarmente favorevoli al suo sviluppo. Questa associazione segreta raccoglieva soprattutto piccoli possidenti, piccoli impiegati ed ufficiali o perché gravati di tasse o perché scontenti della carriera o per altre ragioni, liberi professionisti onesti, industriali e commercianti anelanti ad una indispensabile libertà nei commerci ed all'abolizione totale dei monopoli o privative. I carbonari napoletani miravano principalmente ad ottenere la costituzione, perciò favorirono il ritorno dei Borboni, ma rimesso dal congresso di Vienna sul trono Ferdinando IV, che fu I dopo la restaurazione, e salutato con gioia nella speranza della sospirata costituzione già concessa ai siciliani nel 1812, essi rimasero delusi così che cercarono d'attrarre nuovi proseliti ed aumentare le vendite o conventicole in cui si radunavano. Un grande avvenimento, poi, aveva turbato Gaeta e tutta la regione, l'assedio posto da truppe anglo-austro-napoletane alla piazzaforte, la quale capitolò dopo quattro mesi, difesa dal generale barone Alessandro Begani (8 agosto 1815). I feroci sistemi di persecuzione adottati da Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, ministro di polizia, fecero ingrossare considerevolmente le file carbonare tanto che il re si vide costretto a licenziarlo (25 giugno 1816) per consiglio delle potenze estere, chiamando a succedergli il Medici nella carica, ma i disegni dei carbonari maturavano in segreto; fu tutto un lavorio occulto della setta durante il quinquennio. Dopo il famoso concordato del 1815 tra la santa sede ed il regno di Napoli, che aveva riscosso riprovazione, e la scarsa e poco efficace azione del governo nel biennio 1818-19 contro le società segrete, la carboneria si estese in modo impressionante perché diffusissimo era il malcontento, più che a Napoli, nel mondo provinciale. Tra quelli che aderirono al programma della carboneria, sia pure con interessi diversi e con concezioni diverse, bisogna comprendere una parte notevole del basso clero, “che viveva la vita e divideva le tendenze della piccola borghesia da cui generalmente usciva, che si sentiva maltrattata rispetto agli alti prelati ed era attirata dal misticismo cattolico diffuso nella setta”. E' la voce del tempo, raccolta già dal Principe di Canosa, il quale nello scritto “I pifferi di montagna”, che è del 1822, riporta testualmente ”Fra i carbonari vi è un gran numero di membri del clero inferiore … Essi vivevano intorno a membri del clero superiore in uno stato non molto migliore dei servitori domestici”. Il successo della rivoluzione di Spagna infuse ai carbonari maggiore ardire, infiammandoli di nuovo zelo, perché la stessa dinastia regnava anche a Napoli, e ne seguirono i moti del '20 iniziati a Nola, di cui fu anima il prete Menichini, insieme coi tenenti Morelli e Silvati, ma divenuto Ferdinando padrone del regno per opera delle truppe austriache comandate dal generale Frimont (aveva il re annunziato da Lubiana l'invasione del 23 febbraio 1821), sciolto l'esercito ed instaurata la reazione, fu subito creata, con decreto del 9 aprile, una corte marziale, incaricata dell'esecuzione del real decreto del 28 di marzo contro qualunque unione segreta e specialmente contro le società dei carbonari (notevole l'articolo 5 che comminava la pena di morte). Era anche ritornato il Canosa, che fu sostituito col Medici nel giogno dell'anno seguente, inoltre Pio VII scomunicava la carboneria con la “Bolla ecclesiam” del 13 settembre 1821. Fu nominativamente condannata, dice il Pieri, rinnovandosi contro di essi la comunica e le altre pene contro la massoneria, con la dichiarazione che la condanna non era ispirata da motivi politici, ma dal carattere pseudo-religioso che la setta ostentava. In questo clima, un mese dopo, affiorano i preti carbonari della diocesi di Gaeta nelle carte dell'archivio capitolare. E' necessario dire che l'indagine è limitata alle carte di quell'archivio ed alla regione gaetana; tuttavia le notizie spigolate hanno un qualche interesse per la storia della carboneria nell'Italia meridionale. La breve esposizione è intessuta di richieste di notizie o di accuse delle autorità di polizia e di pronte e caute risposte dell'ordinario mons. Francesco Buonomo, del Borgo di Gaeta, il quale governò la diocesi dal 1818 al 1827, dopo esserne stato vicario capitolare circa tre anni, fino cioè al 10 giugno 1818. Sembra che si giochi a botta e risposta, ma senza motti mordaci e pungenti, perché da prudenza e carità è mosso e guidato sempre l'ottimo prelato nelle informazioni e nelle delucidazioni. Al biennio 1821-22 si riferisce la maggior parte dei documenti rinvenuti. Appartenevano allora alla diocesi, con la città capoluogo, il Borgo (ora sezione Portosalvo), Mola e Castellone (Formia), Maranola col casale Trivio, Castellonorato, Spigno, le Fratte (Ausonia) col casale Selvacava, Coreno, Castelforte e Sujo, Santi Cosma e Damiano col casale Ventosa, Traetto (Minturno) coi quattro casali Pulcherini, Santa Maria, Tremenzuoli e Tufo, Itri, Sperlonga, Ponza Ventotene, Fondi, Monticelli (Monte San Biagio), Lenola, Campodimele, Pastena: Le ultime quattro terre insieme con Fondi da tre anni appena, essendo stata soppressa la diocesi fondana col concordato del 1818 tra la santa sede e le Due Sicilie. Diocesi, dunque, nella provincia di Terra di Lavoro, compresa tra il corso inferiore del Garigliano, i monti Aurunci-Ausoni ed il mar Tirreno fino a Terracina, ultima città dello Stato Pontificio. Aggiunte le due isole ponziane, ancor oggi appartenenti alla stessa diocesi, in provincia di Latina. L'intendente di Terre di Lavoro in Caserta, con riservata gabinetto in data 9 ottobre 1821 al Vescovo di Gaeta, desidera conoscere, a richiesta del commissario generale della polizia, le qualità politiche e morali dei parroci della diocesi “con le più accurate informazioni”. Mons. Buonomo risponde il giorno 17. Nell'elenco nominativo dei parroci, prezioso per l'indicazione dei rispettivi paesi e delle parrocchie, la rubrica informazioni ha note ora “ottime” ora “buone”, ma per sei di essi le note son ben diverse:
  • Don Raffaele Perrone, parroco di Maranola, “non gode buona opinione presso il pubblico, era massone poi è stato carbonaro per pubblica voce e fama”;
  • Don Salvatore Tomao, parroco di Castellonorato, “non ho intesa cosa in contrario sul costume, per pubblica voce e fama carbonaro;
  • Don Michele Orgera, parroco di Spigno, “condotta buona, carbonaro di solo nome per timore della vita minacciatagli”;
  • Don Luigi Palumbo, parroco di san Biase (Traetto), “non ho inteso cosa in contrario, per pubblica voce e fama carbonaro perché mal consigliato”;
  • Don Nicola Pensiero, parroco di Porcarini (sic) casale di Traetto, “non ho intesa cosa in contrario sul costume, carbonaro;
  • Don Giuseppe Pimpinella, parroco di Tremenzuoli, “godeva cattiva opinione, ma si è riformato sul costume, carbonaro”;
Il vescovo, prima di apporre la firma, aggiunge: “Di nessuno ancorché vi fussero de' carbonari si è inteso che abbia fatta qualche azione o profferita qualche parola contro le massime evangeliche, anzi devo confermare nel tempo stesso che i parroci carbonari chiamati da me ed ammoniti hanno dimostrata un'edificante docilità”. Degli ultimi due segnati nell'elenco siamo in grado di dare qualche notizia. Il Pensiero, nato in Santa Maria Infante il 1762, era succeduto al parroc don Tommaso Tucciarone. Morì il 30 ottobre 1842, dopo 45 anni di governo parrocchiale. Aveva 59 anni nel 1821. Particolare interesse suscita il parroco Pimpinella. Giovane studente, d'animo bellicoso e d'ingegno vivace, aveva preso parte ai moti del 1799 favoreggiando Michele Pezza detto “Fra Diavolo”, poi gettò la spada ed indossò l'abito talare. Dopo avere insegnato filosofia e teologia nel seminario di Gaeta, nominato parroco di Tremenzuoli con real cedola di Gioacchino Murat del 22 febbraio 1810, prese possesso del beneficio il 12 marzo. Da una lettera del vescovo, in data 8 ottobre 1821, al giudice di Traetto, apprendiamo che era detenuto nel carcere del luogo “per macchinazioni politiche, cattiva condotta morale e detenzioni di armi”, ma per la sua chiara e manifesta innocenza fu assoluto, come scriveva il commissario generale della polizia (n. 2536, 2 ottobre), per cui il presule domandava che fosse messo in libertà e si presentasse a lui per ricevere disposizioni. Il restaurato governo borbonico aveva creato a Napoli delle giunte dette di “scrutinio”, perché destinate a scrutinare la vita di tutti gli uffiziali dello stato e de' più alti e più noti cittadini: Giudizi e giudici spaventevoli – secondo il Colletta – essendo molte di esse composte de' più caldi partigiani della tirannide. Il maresciallo di campo, presidente della II giunta di scrutinio Edmondo O'Fanis, essendo stato negli ultimi tempi della costituzione la maggior parte dei corpi di fanteria e cavalleria di linea accantonati nella diocesi, si rivolge al vescovo (foglio n. 86 dell'11 agosto 1821), perché si compiaccia d'indicare riservatamente “quei capitani, cappellani e chirurghi, che fosse a sua cognizione essersi particolarmente distinti per opinioni esaltate, scritti sediziosi e fatti criminosi”. Mons. Buonomo risponde il giorno 18: “Siccome io non sono stato mai in contatto speciale con costoro, ed in que' tempi sopratutto da me considerati di tal'oggetto fra me e me, o sono andato in chiesa per predicare tranquillità, religione, carità cristiana, così non ho di che dirne cosa. In generale però posso asserire che non ho intesi pubblicati scritti sediziosi, né fatti criminosi per parte loro”. Se tendenziose sono o possono sembrare le note della polizia borbonica, buona fonte è per noi la parola del vescovo, dalla quale pur si rileva lo spirito pubblico agitato nei paesi da esso governati, il movimento liberale con uomini pieni di fede e d'entusiasmo, anche se egli non può controllare direttamente le dicerie , le accuse fatte in buona o male fede ed è certo che personali rivalità, odi privati o di famiglie, beghe paesane ebbero campo di sfogarsi in denunzie più spesso anonime e talvolta anche firmate, ma quegli ecclesiastici perseguivano un loro ideale di libertà, d'unità, d'indipendenza, animati da sincero spirito patriottico, liberale o portavano odi e ire personali e locali oppure erano spinti dal disagio economico? Per trovare affiliati alla setta, anche parroci, canonici e sacerdoti-maestri, le cui condizioni erano migliori di quelle dei sacerdoti semplici, privi di benefici, assegnati alle chiese ricettizie innumerate, senza alcun provento se non la sola elemosina della messa, che era di 15 grana o di 2 carlini (L. 0,67 – 0,85), bisogna pensare che non tanto il disagio economico li movesse, ma piuttosto la brama di giustizia, il loro spirito anelante alla libertà. Perciò l'adesione al programma della carboneria può essere considerata un titolo di gloria per quella schiera di ecclesiastici animosi, i quali sfidavano la galera e l'esilio, ligi al gran maestro dell'universo, Gesù Cristo, ponendo il tal modo la loro pietruzza per la costruzione dell'edificio, sacro alla libertà ed alla giustizia sociale. (Prof. Angelo De Santis: Estratto dalla rivista “Archivi” - fascicolo I – 1958).
Aurelio Carlino

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