Interno chiesa di san Nicandro in Tremensuoli |
La carboneria era una
società segreta con intenti liberali e patriottici, che si affermò
in Italia durante il periodo della restaurazione. Secondo il generale
piemontese Giuseppe Rossetti, che combatté nell'esercito francese e
fu affiliato nella carboneria, si tratterebbe di un'associazione di
mutuo soccorso tra militari di ranghi inferiori, risalente alla
settecentesca “Charbonnerie” della Francia contea. E' noto che
Giuseppe Bonaparte, gran maestro della massoneria francese, salito
sul trono di Napoli, riordinò quella napoletana. La setta nascente
nell'Italia meridionale all'epoca di Gioacchino Murat, per opera di
un gruppo di massoni, la carboneria, trovò quindi nel regno
condizioni particolarmente favorevoli al suo sviluppo. Questa
associazione segreta raccoglieva soprattutto piccoli possidenti,
piccoli impiegati ed ufficiali o perché gravati di tasse o perché
scontenti della carriera o per altre ragioni, liberi professionisti
onesti, industriali e commercianti anelanti ad una indispensabile
libertà nei commerci ed all'abolizione totale dei monopoli o
privative. I carbonari napoletani miravano principalmente ad ottenere
la costituzione, perciò favorirono il ritorno dei Borboni, ma
rimesso dal congresso di Vienna sul trono Ferdinando IV, che fu I
dopo la restaurazione, e salutato con gioia nella speranza della
sospirata costituzione già concessa ai siciliani nel 1812, essi
rimasero delusi così che cercarono d'attrarre nuovi proseliti ed
aumentare le vendite o conventicole in cui si radunavano. Un grande
avvenimento, poi, aveva turbato Gaeta e tutta la regione, l'assedio
posto da truppe anglo-austro-napoletane alla piazzaforte, la quale
capitolò dopo quattro mesi, difesa dal generale barone Alessandro
Begani (8 agosto 1815). I feroci sistemi di persecuzione adottati da
Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, ministro di polizia,
fecero ingrossare considerevolmente le file carbonare tanto che il re
si vide costretto a licenziarlo (25 giugno 1816) per consiglio delle
potenze estere, chiamando a succedergli il Medici nella carica, ma i
disegni dei carbonari maturavano in segreto; fu tutto un lavorio
occulto della setta durante il quinquennio. Dopo il famoso concordato
del 1815 tra la santa sede ed il regno di Napoli, che aveva riscosso
riprovazione, e la scarsa e poco efficace azione del governo nel
biennio 1818-19 contro le società segrete, la carboneria si estese
in modo impressionante perché diffusissimo era il malcontento, più
che a Napoli, nel mondo provinciale. Tra quelli che aderirono al
programma della carboneria, sia pure con interessi diversi e con
concezioni diverse, bisogna comprendere una parte notevole del basso
clero, “che viveva la vita e divideva le tendenze della piccola
borghesia da cui generalmente usciva, che si sentiva maltrattata
rispetto agli alti prelati ed era attirata dal misticismo cattolico
diffuso nella setta”. E' la voce del tempo, raccolta già dal
Principe di Canosa, il quale nello scritto “I pifferi di montagna”,
che è del 1822, riporta testualmente ”Fra i carbonari vi è un
gran numero di membri del clero inferiore … Essi vivevano intorno a
membri del clero superiore in uno stato non molto migliore dei
servitori domestici”. Il successo della rivoluzione di Spagna
infuse ai carbonari maggiore ardire, infiammandoli di nuovo zelo,
perché la stessa dinastia regnava anche a Napoli, e ne seguirono i
moti del '20 iniziati a Nola, di cui fu anima il prete Menichini,
insieme coi tenenti Morelli e Silvati, ma divenuto Ferdinando padrone
del regno per opera delle truppe austriache comandate dal generale
Frimont (aveva il re annunziato da Lubiana l'invasione del 23
febbraio 1821), sciolto l'esercito ed instaurata la reazione, fu
subito creata, con decreto del 9 aprile, una corte marziale,
incaricata dell'esecuzione del real decreto del 28 di marzo contro
qualunque unione segreta e specialmente contro le società dei
carbonari (notevole l'articolo 5 che comminava la pena di morte). Era
anche ritornato il Canosa, che fu sostituito col Medici nel giogno
dell'anno seguente, inoltre Pio VII scomunicava la carboneria con la
“Bolla ecclesiam” del 13 settembre 1821. Fu nominativamente
condannata, dice il Pieri, rinnovandosi contro di essi la comunica e
le altre pene contro la massoneria, con la dichiarazione che la
condanna non era ispirata da motivi politici, ma dal carattere
pseudo-religioso che la setta ostentava. In questo clima, un mese
dopo, affiorano i preti carbonari della diocesi di Gaeta nelle carte
dell'archivio capitolare. E' necessario dire che l'indagine è
limitata alle carte di quell'archivio ed alla regione gaetana;
tuttavia le notizie spigolate hanno un qualche interesse per la
storia della carboneria nell'Italia meridionale. La breve esposizione
è intessuta di richieste di notizie o di accuse delle autorità di
polizia e di pronte e caute risposte dell'ordinario mons. Francesco
Buonomo, del Borgo di Gaeta, il quale governò la diocesi dal 1818 al
1827, dopo esserne stato vicario capitolare circa tre anni, fino cioè
al 10 giugno 1818. Sembra che si giochi a botta e risposta, ma senza
motti mordaci e pungenti, perché da prudenza e carità è mosso e
guidato sempre l'ottimo prelato nelle informazioni e nelle
delucidazioni. Al biennio 1821-22 si riferisce la maggior parte dei
documenti rinvenuti. Appartenevano allora alla diocesi, con la città
capoluogo, il Borgo (ora sezione Portosalvo), Mola e Castellone
(Formia), Maranola col casale Trivio, Castellonorato, Spigno, le
Fratte (Ausonia) col casale Selvacava, Coreno, Castelforte e Sujo,
Santi Cosma e Damiano col casale Ventosa, Traetto (Minturno) coi
quattro casali Pulcherini, Santa Maria, Tremenzuoli e Tufo, Itri,
Sperlonga, Ponza Ventotene, Fondi, Monticelli (Monte San Biagio),
Lenola, Campodimele, Pastena: Le ultime quattro terre insieme con
Fondi da tre anni appena, essendo stata soppressa la diocesi fondana
col concordato del 1818 tra la santa sede e le Due Sicilie. Diocesi,
dunque, nella provincia di Terra di Lavoro, compresa tra il corso
inferiore del Garigliano, i monti Aurunci-Ausoni ed il mar Tirreno
fino a Terracina, ultima città dello Stato Pontificio. Aggiunte le
due isole ponziane, ancor oggi appartenenti alla stessa diocesi, in
provincia di Latina. L'intendente di Terre di Lavoro in Caserta, con
riservata gabinetto in data 9 ottobre 1821 al Vescovo di Gaeta,
desidera conoscere, a richiesta del commissario generale della
polizia, le qualità politiche e morali dei parroci della diocesi
“con le più accurate informazioni”. Mons. Buonomo risponde il
giorno 17. Nell'elenco nominativo dei parroci, prezioso per
l'indicazione dei rispettivi paesi e delle parrocchie, la rubrica
informazioni ha note ora “ottime” ora “buone”, ma per sei di
essi le note son ben diverse:
- Don Raffaele Perrone, parroco di Maranola, “non gode buona opinione presso il pubblico, era massone poi è stato carbonaro per pubblica voce e fama”;
- Don Salvatore Tomao, parroco di Castellonorato, “non ho intesa cosa in contrario sul costume, per pubblica voce e fama carbonaro;
- Don Michele Orgera, parroco di Spigno, “condotta buona, carbonaro di solo nome per timore della vita minacciatagli”;
- Don Luigi Palumbo, parroco di san Biase (Traetto), “non ho inteso cosa in contrario, per pubblica voce e fama carbonaro perché mal consigliato”;
- Don Nicola Pensiero, parroco di Porcarini (sic) casale di Traetto, “non ho intesa cosa in contrario sul costume, carbonaro;
- Don Giuseppe Pimpinella, parroco di Tremenzuoli, “godeva cattiva opinione, ma si è riformato sul costume, carbonaro”;
Il vescovo, prima di
apporre la firma, aggiunge: “Di nessuno ancorché vi fussero de'
carbonari si è inteso che abbia fatta qualche azione o profferita
qualche parola contro le massime evangeliche, anzi devo confermare
nel tempo stesso che i parroci carbonari chiamati da me ed ammoniti
hanno dimostrata un'edificante docilità”. Degli ultimi due segnati
nell'elenco siamo in grado di dare qualche notizia. Il Pensiero, nato
in Santa Maria Infante il 1762, era succeduto al parroc don Tommaso
Tucciarone. Morì il 30 ottobre 1842, dopo 45 anni di governo
parrocchiale. Aveva 59 anni nel 1821. Particolare interesse suscita
il parroco Pimpinella. Giovane studente, d'animo bellicoso e
d'ingegno vivace, aveva preso parte ai moti del 1799 favoreggiando
Michele Pezza detto “Fra Diavolo”, poi gettò la spada ed indossò
l'abito talare. Dopo avere insegnato filosofia e teologia nel
seminario di Gaeta, nominato parroco di Tremenzuoli con real cedola
di Gioacchino Murat del 22 febbraio 1810, prese possesso del
beneficio il 12 marzo. Da una lettera del vescovo, in data 8 ottobre
1821, al giudice di Traetto, apprendiamo che era detenuto nel carcere
del luogo “per macchinazioni politiche, cattiva condotta morale e
detenzioni di armi”, ma per la sua chiara e manifesta innocenza fu
assoluto, come scriveva il commissario generale della polizia (n.
2536, 2 ottobre), per cui il presule domandava che fosse messo in
libertà e si presentasse a lui per ricevere disposizioni. Il
restaurato governo borbonico aveva creato a Napoli delle giunte dette
di “scrutinio”, perché destinate a scrutinare la vita di tutti
gli uffiziali dello stato e de' più alti e più noti cittadini:
Giudizi e giudici spaventevoli – secondo il Colletta – essendo
molte di esse composte de' più caldi partigiani della tirannide. Il
maresciallo di campo, presidente della II giunta di scrutinio Edmondo
O'Fanis, essendo stato negli ultimi tempi della costituzione la
maggior parte dei corpi di fanteria e cavalleria di linea accantonati
nella diocesi, si rivolge al vescovo (foglio n. 86 dell'11 agosto
1821), perché si compiaccia d'indicare riservatamente “quei
capitani, cappellani e chirurghi, che fosse a sua cognizione essersi
particolarmente distinti per opinioni esaltate, scritti sediziosi e
fatti criminosi”. Mons. Buonomo risponde il giorno 18: “Siccome
io non sono stato mai in contatto speciale con costoro, ed in que'
tempi sopratutto da me considerati di tal'oggetto fra me e me, o sono
andato in chiesa per predicare tranquillità, religione, carità
cristiana, così non ho di che dirne cosa. In generale però posso
asserire che non ho intesi pubblicati scritti sediziosi, né fatti
criminosi per parte loro”. Se tendenziose sono o possono sembrare
le note della polizia borbonica, buona fonte è per noi la parola del
vescovo, dalla quale pur si rileva lo spirito pubblico agitato nei
paesi da esso governati, il movimento liberale con uomini pieni di
fede e d'entusiasmo, anche se egli non può controllare direttamente
le dicerie , le accuse fatte in buona o male fede ed è certo che
personali rivalità, odi privati o di famiglie, beghe paesane ebbero
campo di sfogarsi in denunzie più spesso anonime e talvolta anche
firmate, ma quegli ecclesiastici perseguivano un loro ideale di
libertà, d'unità, d'indipendenza, animati da sincero spirito
patriottico, liberale o portavano odi e ire personali e locali oppure
erano spinti dal disagio economico? Per trovare affiliati alla setta,
anche parroci, canonici e sacerdoti-maestri, le cui condizioni erano
migliori di quelle dei sacerdoti semplici, privi di benefici,
assegnati alle chiese ricettizie innumerate, senza alcun provento se
non la sola elemosina della messa, che era di 15 grana o di 2 carlini
(L. 0,67 – 0,85), bisogna pensare che non tanto il disagio
economico li movesse, ma piuttosto la brama di giustizia, il loro
spirito anelante alla libertà. Perciò l'adesione al programma della
carboneria può essere considerata un titolo di gloria per quella
schiera di ecclesiastici animosi, i quali sfidavano la galera e
l'esilio, ligi al gran maestro dell'universo, Gesù Cristo, ponendo
il tal modo la loro pietruzza per la costruzione dell'edificio, sacro
alla libertà ed alla giustizia sociale. (Prof. Angelo De Santis:
Estratto dalla rivista “Archivi” - fascicolo I – 1958).
Aurelio Carlino
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